domenica 28 aprile 2013

Incubo di una notte di mezza estate


Tratto da un incubo vero       

Tutto si riduce all’ultima persona a cui pensi la notte. È lì che è il cuore.
Ma se quella persona è qualcuno che odi? Si potrà mai odiare col cuore?
Forse quando non c’è più nessuno da amare. Quando quell’odio ti ha consumato, stritolato, schiacciato. Quando il tuo cuore è diventato solo un cumulo di cenere, memoria di una fiamma ormai spenta.
Era così che mi sentivo, quella notte; quella notte in cui tutto è finito, in cui tutte quelle bocche divoratrici di cuori si sono chiuse per sempre. Calde lacrime scivolavano dai miei occhi, ma non facevo in tempo a sentirne il sapore, ché subito il mio cuscino le assorbiva, impregnandosi anch’esso del mio dolore. Era bianco, così come le lenzuola che mi ricoprivano i piedi, il comodino accanto al letto, le tende alle finestre. Il bianco è il colore del vuoto, ho letto una volta in un libro, e quel senso di vuoto tra il petto e l'addome, là dove sembrava che si annodassero tutti i fili del corpo,  continuava a portare nuovi ricordi nella mia mente, e nuove lacrime nei miei occhi. Volevo morire.
“È inutile continuare”, mi dicevo mentre mi rannicchiavo sotto le coperte, l'unico posto sicuro in cui potevo dare sfogo a tutta la mia disperazione. “Ormai hanno vinto loro”.
Mi sedetti sul letto, prendendo tra le mani il bicchiere posato sul comodino.
«Vorrei proporre un brindisi» declamai al vento con le guance rigate, le tende che ondeggiavano seguendo i suoi soffi gelidi.
«A voi, che avete sempre intralciato il mio cammino. Avete vinto!» e sollevai in alto il mio drink letale, gli occhi arrossati per il troppo piangere. Immaginavo che tutte le persone fuori dalla stanza si fossero riunite intorno a me, alzando ognuno il proprio bicchiere in segno di saluto, con grandi sorrisi che solcavano i loro volti, attendendo il momento in cui mi sarei accasciata a terra. Una macabra imitazione di un cin-cin da festa.
Non rimasi sorpresa, quando la vidi comparire all'improvviso, al centro della stanza. Abbassai il bicchiere: non avrei potuto nemmeno morire come desideravo. Ma perché proprio lei?
Piccola come una bambina, sembrava proprio una bambola di porcellana. I lunghi capelli corvini accentuavano il colore livido della sua pelle. Un paio di braccia ossute sbucavano dalle larghe maniche della candida tunica, reggendo un fucile alto quasi quanto lei. Senza smettere di fissarmi, con i suoi grandi occhi neri come la mia paura, inclinò la testa di lato. Le sue labbra sottili non si erano mosse di un millimetro, eppure sapevo quello che mi stava chiedendo.
“Non è qui per me”.
Un attimo dopo ero in piedi davanti a lei. Non avevo più paura: sapevo quello che dovevo fare.
Quando la bambola bambina ripeté la sua domanda muta, un ghigno comparve sul mio volto scarno.
«Tutti» le risposi, serrando i pugni.
Si mosse verso la porta, ma i suoi passi non fecero alcun rumore, quasi fosse fatta di vento. Mi misi dietro di lei, osservando incantata il modo in cui armeggiava il fucile, una parte stessa del suo corpo. Premette il grilletto, e il primo proiettile di quella Notte Rossa colpì la porta, scardinandola. Ciò che ne rimase cadde a terra con un tonfo, ma nessuno sarebbe mai riuscito a sentirlo: la strada che ci separava dalle altre stanze era troppo lunga.
Circondati da un buio sempre più opprimente, percorrevamo lo stretto corridoio senza mai pensare a tornare indietro. E non appena l'ultimo spiraglio di luce proveniente dalla mia stanza si spense, cominciai a sentire i primi suoni.
Perché lì, dietro quelle porte, era nascosto tutto il mio passato.
Da qualche parte due persone si urlavano a vicenda, mentre un bambino piangeva, impaurito dallo spettacolo a cui stava assistendo.
Sentivo altre persone disperarsi dietro un'altra porta.
«Mi dispiace! Sono rimasta con lei tutta la notte!»
«No, NO! È impossibile! IMPOSSIBILE!»
«Cosa sta succedendo?»
«È MORTA!»
«Non può finire così... no, NO!»
È sempre stato difficile, per me, percorrere quel corridoio. Quei tonfi, quei lamenti, quelle urla, mi rimbombavano nella testa come martelli su un'incudine. Mi rannicchiavo a terra, mentre quel buio, sadico, giocava con me, facendomi sentire sempre più sola. E debole.
Non riuscivo a vedere la strana bambina, eppure sapevo che era lì, davanti a me. Non si lasciava impressionare da tutto ciò che ascoltava, e continuava a camminare, superando una alla volta tutte le porte che comparivano accanto a noi. Loro non potevano morire: appartenevano al passato, e l'unica cosa che potevamo fare era continuare a camminare. Continuavo a seguirla, spinta soltanto dalla voglia di non sentire più quei suoni: mi facevano troppo male.
Di colpo la bambola si fermò, e io con lei. La sentii armeggiare di nuovo con il suo fucile, e poi un rumore di spari riempì l'aria, mentre le torce di una piccola stanza rotonda davanti a noi si accendevano una ad una. Né un tappeto né un mobile adornavano quella sala: le pareti e il pavimento erano totalmente bianchi. Avevamo superato il corridoio, ma eravamo di nuovo nel vuoto.
Davanti a me, unica macchia scura in quella desolazione bianca, c'era un'altra porta. Si aprì cigolando, e tre donne in vestaglia presero posto al centro della sala, una accanto all'altra. Il baluginio delle fiamme ne rimarcava i lineamenti, facendo sembrare le loro rughe ancora più profonde, i loro sguardi più severi.
La donna al centro fece schioccare la lingua per dimostrare tutto il suo disappunto.
«Bene, bene, cosa abbiamo qui? La piccola sognatrice! A quanto pare sei riuscita a superare il corridoio.»
A quelle parole, le sue seguaci scoppiarono a ridere.
«Sei davvero convinta che potresti farcela, adesso?» dissero in coro.
«Lo sai che il tuo percorso si ferma qui, vero? Il tuo futuro ti aspetta.»
Già, il mio futuro da fallita.
«Un futuro senza il tuo caro teatro...» disse quella a destra
«...e senza la tua cara scrittura.» continuò quella a sinistra.
«Noi hai speranze.» aggiunse la donna al centro «Tu non sei nessuno. Figurati se riusciresti mai a laurearti, a trovare un lavoro... un mucchio di frottole irrealizzabili. Al limite potrai lavare i calzini di tuo marito per tutta la vita. Sempre se qualcuno ti vorrà.»
E tutte e tre scoppiarono a ridere. Ero l'unica che poteva vedere quella piccola creatura al centro della stanza; era già in posizione, con le dita della mano destra pronte sul grilletto.
«Un giorno» dissi quando smisero di ridere «vi rimangerete ogni singola parola che avete appena pronunciato.»
Partirono tre colpi. Le donne si coprirono la bocca con le mani: qualcosa le aveva colpite lì, ma non riuscivano a capire cosa.
E poi, le loro lingue si rivoltarono nelle loro stesse gole.
All'improvviso spalancarono gli occhi, piene di terrore. Una dopo l'altra si gettarono a terra, contorcendosi sulla dura pietra. Cercarono di rimettere la lingua a posto con le mani, gemendo mentre tentavano di respirare. Cominciarono a scavare con le unghie nella morbida pelle del collo, il volto ormai viola,  ma l'unica cosa che ottennero furono tre vestaglie intrise di sangue, lo stesso sangue che si stava spargendo, rosso, sul candido pavimento, creando un macabro contrasto.
Quando anche la donna al centro smise di muoversi, mi avvicinai; tutte e tre mostravano la stessa espressione disperata: le bocche spalancate che sembravano ancora alla ricerca di ossigeno, gli occhi rivoltati nelle orbite, le facce di un pallido violaceo: il colore della morte. Sorrisi quando le vidi in quello stato, con i corpi contratti in mostruose pose. Quella bambola, quella bambina, o qualunque cosa lei fosse... era riuscita in qualcosa che credevo impossibile.
Un cigolio preannunciò l'arrivo di altre persone. Avevo quasi dimenticato la loro esistenza, felice com'ero nell'essere riuscita in due dei miei obiettivi.
«Un po' di veleno e ti sbrigavi subito. Non c'era bisogno di combinare tutto questo pasticcio». Quella voce così familiare... non poteva smettere di criticare qualunque cosa vedesse. Alzai gli occhi, e mi ritrovai di fronte un paio di gelidi occhi azzurri, incorniciati da una moltitudine di ricci ribelli. Dietro di lei, un ragazzo con gli stessi occhi teneva sottobraccio un'altra ragazza dai capelli corti. Leggermente impauriti alla vista del sangue, mi guardavano sorpresi da quello che avevo fatto.
«Le hai uccise...» disse il ragazzo con voce sommessa. La ragazza si voltò verso di lui.
«No, guarda, si sono addormentate mentre davano un ketchup-party!» sbottò.
«FAI SCHIFO!» Era stata un'altra donna, accanto alla porta, a urlare. I suoi lineamenti, così simili ai miei, erano deformati in una smorfia di disgusto. «Renditi conto di quello che hai combinato!»
«Abbiamo fatto bene a lasciarti qui» disse la ragazza con i capelli ricci. «Sei solo una buona a nulla» fece un passo in avanti, e io indietreggiai, sbattendo contro qualcuno.
Non fui sorpresa di vederlo lì, immobile e silenzioso, quando mi voltai. Ora che non c'ero più io a scompigliarglieli, i suoi capelli erano perfettamente in ordine. Li aveva anche tagliati. Per un interminabile istante i suoi occhi carichi di odio incontrarono i miei.
«Non  puoi scappare dal tuo presente» mi disse.
Mi avevano circondata.
Ovunque mi girassi, li vedevo tutti intorno a me. Quelle persone che tanto avevo amato, ma che mi avevano abbandonata non appena avevano potuto, lasciandomi completamente sola.
Il dolore era troppo grande. No, non potevo vincere contro tutto questo. L'unica cosa che poteva salvarmi era...
… di nuovo, un rumore di spari. Quando venne colpito, il ragazzo davanti a me mi rovinò addosso. Tante volte lo avevo stretto tra le braccia, una vita prima, quando ancora non c'era una voragine al posto del suo cuore; ora, invece, le mie braccia non riuscirono a sostenerlo, e lui cadde a terra insieme agli altri. Erano tutti ridotti nella stessa condizione, con un buco grande quanto il mio pugno al centro del petto.
Degli esseri senza cuore.
Mi guardai intorno. I miei piedi scalzi erano ricoperti da quel liquido vermiglio che ormai riempiva quasi tutto il pavimento. La bambola era di nuovo accanto a me. Sapeva che ormai era tutto finito, che ormai erano tutti morti.
Con gli occhi chiusi non più pieni di lacrime, il viso rivolto verso il cielo, in piedi tra tutti quei morti, potevo accogliere dentro di me la vita.
Respiravo a pieni polmoni l'odore acre del sangue, lo stesso che inzuppava anche il mio vestito. Ridevo nell'ascoltare quei rumori che potevo ancora sentire provenire dal corridoio. Non avevano più un significato per me.
Ero libera. Il passato era alle mie spalle, il futuro e il presente ai miei piedi.
Una mano, fredda come solo un corpo morto può essere, si chiuse attorno al mio braccio. Trasalii, spaventata, ma era soltanto la mia cara amica che mi chiamava.
Ho superato i tuoi tristi ricordi, ho ucciso le tue paure sul tuo futuro e sul tuo presente. Niente e nessuno potrà fermati. Ma ricordati che questo è solo un sogno.
La guardai incuriosita, mentre mi consegnava il suo pesante fucile. Non sapevo nemmeno come impugnarlo.
Tocca a te trasformarlo in realtà.



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