venerdì 28 settembre 2012

La Terra Dorata


Ad Alessia, Leila, Rossella e Tommaso (in rigoroso ordine alfabetico!), i più grandi Amici che avrei mai potuto desiderare, gli unici ad essere riusciti a rallegrarmi in quella terribile serata trasformatasi in un incubo.

Esiste un mondo in cui il Sole, con i suoi caldi raggi pieni di vita, non sorgerà mai. In quel mondo nessuna stella guiderà mai un essere umano verso la sua meta, e né la Luna lo rincuorerà mai, facendo volgere i suoi pensieri verso chi lo sta aspettando a casa. Niente di tutto ciò esiste in quella terra così lontana da noi, fuori dal nostro tempo e dal nostro spazio.
Esistono però gli alberi, grandi alberi dalla ruvida corteccia dorata risplendente di luce, una luce calda e millenaria, destinata a non spegnersi mai. I tronchi nodosi sono intrecciati su loro stessi, e s’innalzano per metri e metri. Sembrano quasi delle enormi colonne che sorreggono il cielo, formando un grande, sontuoso tempio dedicato a un’avvenente dea dell’antichità ormai dimenticata.
Ma esisterà davvero un cielo?
Non è possibile rispondere a questa domanda, visto che i rami di questi alberi sono talmente fitti, che è impossibile vedere aldilà di essi. Una brezza infinita li scuote lievemente, facendo cadere qualcuna delle miliardi di foglie sanguigne che vi sono attaccate. Il vento le fa volteggiare delicatamente nell’aria, facendole eseguire una miriade di piroette prima che, finalmente, possano toccare terra, creando un morbido tappeto dalle mille sfumature scarlatte, che impregna l’aria di un leggero sentore di vita ormai spenta.
Un fiume scivola per tutta la Foresta, riempiendo l’aria del suono dell’acqua che si scontra contro le dure rocce del suo letto. Nessuna foglia cade mai in quel ruscello, nessuna foglia viene mai trascinata via dalla fragorosa corrente. Solo a una cosa è permesso di bagnarsi in quell’acqua limpida e pura.
In un angolo di questa Terra Dorata, qualcosa sta cambiando. Qualcuno, o forse qualcosa, viene trasportato proprio dal Fiume. Indossa una tunica bianca, così lunga che sia le sue mani che i suoi piedi sono ricoperti dalla morbida seta. Il naso e gli occhi sono circondati da una marea di efelidi marroni, e i capelli dorati sembrano quasi dei raggi luminosi attorno alla sua testa, cinta da una corona di fiori dorati. Con le braccia e le gambe leggermente aperte, la creatura continua a farsi trasportare, fino a quando, finalmente, non apre gli occhi.
Quasi meccanicamente alza il busto, facendo spostare lateralmente i fiori intrecciati, con i capelli gocciolanti che si uniscono e si attaccano alla veste, già incollata al suo esile corpo. La corrente è troppo forte e cerca quindi di trovare un appiglio sulle due sponde. Nonostante le lunghe maniche riesce nell’intento, ma non appena cerca di alzarsi in piedi il Fiume la fa cadere in ginocchio.
Ma non avrebbe mai lasciato che la trasportasse via.
Così si ritrova a guadare il fiume gattoni, sporcandosi dalla testa ai piedi di fango, e quando, finalmente, riesce a issarsi sulla terra ferma, si adagia con la schiena rivolta verso le morbide foglie, con gli occhi chiusi.
Normalmente avrebbe avuto il fiatone, avrebbe sentito il cuore battere all’impazzata. In realtà, quando quasi per abitudine mette una mano sul petto, l’unica cosa che continua a sentire è lo scroscio imperterrito dell’acqua.
E in quell’istante, ricorda tutto.
Spalanca gli occhi all’improvviso, liberando un braccio dalla lunga manica per toccarsi la testa. Poi scatta in piedi, con alcune foglie rimaste impigliate tra i capelli ancora gocciolanti. Sa che respirare ormai è totalmente inutile, ma continua ostinatamente a farlo. Ha ancora la mano tra i capelli, e quando trova la corona di fiori se la strappa via con rabbia, gettandola nel Fiume.
Si lascia cadere in ginocchio, le mani strette a pugno, lasciando scorrere calde lacrime di rabbia lungo le guance infangate.
Riesce a vedere, ha ancora tutti i capelli sulla testa, riesce a camminare, e il suo cuore è silenzioso.
Il suo più grande sogno non si è avverato. Ha perso la sfida più grande della sua vita. La malattia ha vinto, e lei è morta.
Morta.
Quella parola continua a martellarle la testa, come se volesse spaccarla e uscire da lì.
Inerte.
Sua madre e suo padre non ci saranno più per lei. Né lei potrà mai aiutarli a riappacificarsi dopo una discussione. Da quel momento in poi sarà solo un triste ricordo da trascinarsi dietro ogni giorno, ogni ora, ogni istante della loro vita.
Spenta.
Non si lamenterà più a scuola per le interminabili lezioni con i suoi amici. Non uscirà più con loro, non riderà più con loro. Perché loro sono ancora vivi.
Loro... i miei amici...
Non ne aveva molti. Solitamente, quando uscivano insieme il sabato sera, erano soltanto in cinque. C’era Chiara, la sua prima vera amica, con i capelli neri come la notte sempre impeccabili, a differenza dei ricci ribelli di Alessandra, sua compagna di banco dalle medie, la prima a prendersi in giro dicendo che Ale (così la chiamavano solitamente) in inglese significasse “Birra”, con gli occhi azzurri come il cielo pieni di lacrime dalle risate; erano di un azzurro diverso da quelli di Giovanni, che ricordavano più il colore del mare; e poi c’era Lucia, con un grande sorriso sempre stampato sulla faccia, innamorata più che mai del suo gatto Jim.
Era stato proprio durante una di quelle serate insieme che il mal di testa aveva fatto la sua prima comparsa. Non appena si erano incontrati nel solito punto, la testa aveva cominciato a dolerle leggermente. Ma nel giro di un paio d’ore la sua emicrania era peggiorata, e quando ritornò a casa andò subito a letto, senza nemmeno cambiarsi. Pensò che fosse soltanto troppo stanca. Non dormì per quella notte, e quando la mattina dopo si alzò dal letto, l’unica cosa che erano cambiati erano gli occhi, gonfi e adornati da un bel paio di occhiaie scure. Aveva fatto colazione velocemente, aveva preso una compressa ed era tornata a letto. Dopo un’ora il mal di testa sembrava essere passato leggermente, ma ritornò ben presto, ancor più forte di prima. Sua madre sapeva cosa stava passando, circa ogni mese aveva un attacco simile anche lei. “Deve essere un problema genetico”, si era detta. Il giorno dopo fu uguale al precedente, e decise quindi di portare la figlia al pronto soccorso. Il medico la visitò rapidamente, e le prescrisse subito un farmaco. Questa volta sembrò funzionare, e dopo quasi una settimana ritornò a scuola, come sempre seduta tra Alessandra e Giovanni, con Lucia davanti. Sarebbe stato ancora più bello se anche Chiara fosse stata con lei, ma andava in un’altra scuola. Anche se, come al solito, le lezioni erano noiose e avevano un leggero effetto soporifero (specie dopo aver passato qualche notte insonne), era contenta di essere di nuovo tra loro. Passare troppi giorni a casa a lungo andare diventa abbastanza noioso, specie se con un forte mal di testa, visto che non puoi nemmeno leggere o usare il computer.
Fu dal mese dopo che tutto cambiò all’improvviso.
Era ferma accanto al lampione della fermata, come tutte le mattine, con lo zaino a terra accanto a lei, aspettando che arrivasse il pullman che portava Giovanni, così da poter andare a scuola insieme. All’improvviso un terribile dolore la colpì, come se qualcuno le avesse infilato mille aghi nella testa. Si portò le mani fra i capelli, spaventata, e non appena il pullman svoltò l’angolo, il mondo divenne ombra.
Quando rinvenne, si accorse di essere stesa lungo un fianco, con la testa leggermente posta all’indietro. Aprì gli occhi lentamente, e vide Giovanni chino verso di lei, con il cellulare in mano.
«Ehy, tutto okay?»
Lei annuì. Quando cercò di rialzarsi, lui la bloccò.
«Rimani sdraiata. L’ambulanza arriverà fra un po’»
Dietro di lui vide una schiera di ragazzi incuriositi. A quanto pare, solo il suo amico l’aveva aiutata.
«Che è successo?» Riuscii finalmente a dire.
«Un attacco epilettico»
Spalancò gli occhi, sorpresa. Un attacco epilettico? Perché? Cosa stava succedendo?
Riprovò di nuovo ad alzarsi, e di nuovo Giovanni la bloccò.
«Non ci pensare nemmeno! Sta ferma.»
Non appena finì di parlare, una sirena annunciò l’arrivo dell’ambulanza. Le fecero una piccola visita di controllo, tempestando l’amico di domande.
«Ha sbattuto la testa nel cadere?»
«Non lo so, quando sono arrivato era già a terra. Mi ci è voluto un po’ per farmi spazio tra la folla, volevo sapere cosa fosse successo. Quando ho visto che era la mia amica, l’ho subito aiutata»
«Intendi dire che tutta questa gente non ha mosso un dito?»
Lui annuì, tutto rosso in faccia per le troppe attenzioni ricevute. I volontari presero la ragazza e la trasportarono in una barella. Mormorò un “ciao” all’amico prima che la portassero via.
Fu nel pomeriggio che lo rivide nuovamente. Insieme a lui c’erano anche Alessandra, Chiara e Lucia. Non appena fecero capolino nella grigia stanza dell’ospedale, la ragazza non poté fare a meno di sorridere. Buffo come la loro semplice presenza potesse renderla felice, nonostante quello che era successo. I suoi genitori decisero di andare al bar a prendere un caffé, lasciando gli amici soli, liberi di parlare.
La prima ad entrare fu Lucia, che corse subito ad abbracciarla, come sempre.
«Ci hai fatto preoccupare, sai?»
«E io? Che l’ho vista a terra?» le disse Giovanni di rimando.
Alessandra e Chiara furono le ultime ad entrare. Chiara si sedette poco lontana dal letto, mentre Alessandra le si avvicinò, dandole una piccola pacca sul braccio.
«[1]Macchina gialla!» esordì «Tanto domani non devi andare a scuola, no?»
A quelle parole, la ragazza si rabbuiò «Chissà se ci tornerò più a scuola, piuttosto» disse.
Tutti si ammutolirono, e l’atmosfera tornò ad essere quella tetra di prima.
«Cos’è successo?» era stata Chiara a parlare questa volta.
«Ricordate il periodo in cui avevo quel terribile mal di testa?»
Tutti annuirono.
«Era il primo sintomo di un glioblastoma»
Se prima l’atmosfera era diventata tetra, adesso lo era ancora di più. Solo Chiara, che non aveva ancora fatto quell’argomento in biologia, chiese «Ovvero?»
«Un tumore al cervello»
Ora anche Chiara si era ammutolita, capendo quanto fosse grave la situazione.
«Non ho voglia di restare in questo letto cinque minuti di più» disse la ragazza «Mi aiutate a mettermi sulla sedia?»
Non capirono subito di cosa stesse parlando. Ma quando notarono che alle loro spalle c’era una sedia a rotelle, capirono tutto. A quanto pare, le sue gambe avevano smesso di funzionare.
Passarono il pomeriggio a gironzolare per i corridoi, raccontandosi piccoli fatti successi durante la mattinata, come se non fosse mai successo niente, come se la ragazza che trasportavano non fosse la loro amica. Ogni tanto qualche infermiere li sgridava per il troppo baccano provocato dalle loro risate; ma quando se ne andavano, scoppiavano a ridere, e continuavano come se niente fosse. Buffo come una giornata da incubo si fosse trasformata in una giornata meravigliosa.
Quando poi dovettero andare via, aiutarono di nuovo la loro amica a risalire sul letto. I suoi genitori si chiedevano come mai fossero così allegri, ma non fecero domande.
«Verremo a trovarti tutti i giorni. Faremo i turni, promesso!» le disse Lucia.
Mantennero la promessa. Vederli le faceva sempre piacere, e proprio come la prima volta, ogni volta che uno di loro entrava, le pareti grigie sembravano colorarsi di colpo.
Ma anche se era felice, il tumore non regrediva.
La chemioterapia la rendeva sempre più debole, e non voleva nessuno specchio nei paraggi, per non vedere la quantità di capelli che le cadevano a ciocche.
Finalmente, dopo un mese, la fecero tornare a casa. Non appena entrò in camera, fu sorpresa di vedere tutti i suoi amici lì.
«Oggi è un giorno speciale, giusto?» esordì Chiara «E allora dobbiamo festeggiare!»
Le avevano organizzato una piccola festa a sorpresa.
Debole e stanca, senza più nemmeno un capello in testa, si sentiva la ragazza più felice del mondo. Due settimane dopo sarebbe dovuta tornare per un altro ciclo di chemioterapia, ma per il momento non le importava. Voleva soltanto passare una serata fantastica con i suoi fantastici amici, proprio come quando uscivano insieme il sabato sera. Le avevano fatto anche un regalo: una parrucca rossa.
«Ma io sono bionda!» aveva detto non appena l’aveva aperta.
«Da oggi sei rossa. E non devi nemmeno pagare la tinta!» le disse Alessandra.
Quando andò a letto, era più stanca che mai. Ma, cosa più importante, era felice.
Si risvegliò all’improvviso, circondata dal buio. Afferrò la sveglia analogica dal comodino, ma sembrava rotta, visto che non si illuminava. Odiava non sapere l’orario. All’improvviso, però, sentì la porta aprirsi, e sua madre sussurrarle «Tesoro, svegliati! Devi almeno pranzare!»
«Se è mezzogiorno, perché è tutto buio?»
«Ma che stai dicendo? La tapparella è ape...» si bloccò all’improvviso. Poi la sentì correre in cucina. Dopo un po’, stava parlando al telefono, allarmata.
Aveva capito subito chi stava chiamando. E aveva capito subito anche cosa fosse successo.
Oltre all’uso delle gambe, aveva perso anche la vista.
La riportarono subito in ospedale. Qualche cellula tumorale aveva viaggiato per il cervello, accumulandosi anche nel lobo occipitale.
Un’altra operazione, un altro ciclo di chemioterapia. Sempre più stanca, e sempre più debole. Ormai passava più tempo dormendo che da sveglia. Ma non voleva mollare. Vivere era l’unica cosa che le importava al momento. E i suoi genitori, così come i suoi amici, erano sempre lì, accanto a lei, ad aiutarla a mangiare, a vestirsi, a lavarsi. E ogni giorno le leggevano qualche capitolo dei suoi libri preferiti, visto che lei non poteva più farlo. Promise a se stessa che quando tutto sarebbe finito, avrebbe imparato l’alfabeto Braille. Perché lei era quasi certa che sarebbe vissuta, nonostante i medici lo negassero. Lo ripeteva in continuazione, così che nessuno lo dimenticasse, lei stessa per prima. Era questo il suo più grande sogno, il suo unico desiderio.
«Non sempre i sogni si realizzano» disse un giorno Lucia.
«Il mio sì»
«E se non si avvera?»
«Si avvererà»
Quel giorno non c’era solo Lucia, ma anche tutti gli altri. Ormai non c’era più allegria nei loro animi, sapevano cosa sarebbe potuto succedere da un momento all’altro. Un’infermiera entrò ricordandogli che l’orario delle visite era finito da tempo.
«Prima che me ne vada, voglio che tu mi faccia una promessa» disse Chiara
«Spara»
«Quando i sogni non si realizzano, non bisogna scoraggiarsi, bisogna affrontare la situazione. Mio nonno me lo diceva sempre. Non ho idea se ci sia qualcosa dopo questa vita o meno, me se c’è, ricordati di noi, ricorda che non ti vorremmo mai triste. Non pensare che tu sia morta, pensa che tu sia rinata. Devi promettermi che lo farai.»
«Non solo a lei, promettilo anche a me» aggiunse Giovanni
«E a me» dissero uno dopo l’altro anche Lucia e Alessandra.
«Okay, okay, lo prometto! A tutti voi! Ora andate, prima che l’infermiera vi sgridi di nuovo»
Dopo che se ne erano andati, si addormentò.
E non si risvegliò più.
O almeno, non in quel mondo.

Non pensare che tu sia morta, pensa che tu sia rinata.
Rinata...
Di colpo, la ragazza smette di piangere. Ora sono queste le parole che rimbombano nella sua testa.
Ho fatto una promessa ai miei amici... devo rinascere!
Si alza in piedi, e si accorge che la tunica è di nuovo asciutta e pulita, così come i capelli. Si gira verso il Fiume che l’ha trasportata fino a lì, ascoltando per un attimo lo scoscio dell’acqua, mentre alcune foglie le accarezzano la testa prima di cadere. Ora sa quello che deve fare.
Aiutandosi con i denti, la ragazza strappa le maniche, fino a quando non le arrivano al gomito. Poi si china, strappandosi anche la veste fino alle ginocchia.
Ora sì che sono libera... ora sì che posso rinascere!
E comincia a correre, seguendo il corso del fiume.
Rinascere!
Raggiunge una velocità che non aveva mai raggiunto prima, ma non è stanca. Il suo cuore ha smesso ormai di battere, e non ha più bisogno di respirare.
Rinascere!
Altre foglie continuano a cadere, impigliandosi ai suoi capelli. Ma a lei non importa, continua imperturbabile a correre.
Rinascere!
Scoppia a ridere per la gioia, e mentre ride continua a correre, a correre e a correre!
Rinascere!
Ora vede dove finisce il Fiume, vede come sfocia in quel piccolo lago, prima di compiere il grande salto e cadere nell’abisso.
Io...
L’acqua in quel lago è abbastanza alta da potersi tuffare. E lei si tuffa, lasciandosi trasportare dalla forte corrente.
...devo....
Riemerge dall’acqua, abbastanza da poter vedere quanto vicina fosse alla cascata.
... RINASCERE!
Insieme a tutta quell’acqua, anche lei viene buttata giù, nel vuoto, urlando dalla forte gioia.

Dove sia finita, è impossibile dirlo, in quella terra così lontana da noi.


[1] È un piccolo gioco. Se vedi passare una macchina gialla, il giorno dopo verrai interrogato. Puoi però passare la “maledizione” a qualcun altro, semplicemente toccandolo dicendo «Macchina gialla», appunto.

Nessun commento:

Posta un commento