Ad Alessia, Leila, Rossella e Tommaso (in rigoroso ordine alfabetico!), i più grandi Amici che avrei mai potuto desiderare, gli unici ad essere riusciti a rallegrarmi in quella terribile serata trasformatasi in un incubo.
Esiste un mondo in cui il
Sole, con i suoi caldi raggi pieni di vita, non sorgerà mai. In quel mondo
nessuna stella guiderà mai un essere umano verso la sua meta, e né la Luna lo rincuorerà mai, facendo
volgere i suoi pensieri verso chi lo sta aspettando a casa. Niente di tutto ciò
esiste in quella terra così lontana da noi, fuori dal nostro tempo e dal nostro
spazio.
Esistono però gli alberi,
grandi alberi dalla ruvida corteccia dorata risplendente di luce, una luce
calda e millenaria, destinata a non spegnersi mai. I tronchi nodosi sono
intrecciati su loro stessi, e s’innalzano per metri e metri. Sembrano quasi
delle enormi colonne che sorreggono il cielo, formando un grande, sontuoso
tempio dedicato a un’avvenente dea dell’antichità ormai dimenticata.
Ma esisterà davvero un cielo?
Non è possibile rispondere a
questa domanda, visto che i rami di questi alberi sono talmente fitti, che è
impossibile vedere aldilà di essi. Una brezza infinita li scuote lievemente,
facendo cadere qualcuna delle miliardi di foglie sanguigne che vi sono
attaccate. Il vento le fa volteggiare delicatamente nell’aria, facendole
eseguire una miriade di piroette prima che, finalmente, possano toccare terra,
creando un morbido tappeto dalle mille sfumature scarlatte, che impregna l’aria
di un leggero sentore di vita ormai spenta.
Un fiume scivola per tutta la Foresta , riempiendo l’aria
del suono dell’acqua che si scontra contro le dure rocce del suo letto. Nessuna
foglia cade mai in quel ruscello, nessuna foglia viene mai trascinata via dalla
fragorosa corrente. Solo a una cosa è permesso di bagnarsi in quell’acqua
limpida e pura.
In un angolo di questa Terra
Dorata, qualcosa sta cambiando. Qualcuno, o forse qualcosa, viene trasportato
proprio dal Fiume. Indossa una tunica bianca, così lunga che sia le sue mani
che i suoi piedi sono ricoperti dalla morbida seta. Il naso e gli occhi sono
circondati da una marea di efelidi marroni, e i capelli dorati sembrano quasi
dei raggi luminosi attorno alla sua testa, cinta da una corona di fiori dorati.
Con le braccia e le gambe leggermente aperte, la creatura continua a farsi
trasportare, fino a quando, finalmente, non apre gli occhi.
Quasi meccanicamente alza il
busto, facendo spostare lateralmente i fiori intrecciati, con i capelli
gocciolanti che si uniscono e si attaccano alla veste, già incollata al suo
esile corpo. La corrente è troppo forte e cerca quindi di trovare un appiglio
sulle due sponde. Nonostante le lunghe maniche riesce nell’intento, ma non
appena cerca di alzarsi in piedi il Fiume la fa cadere in ginocchio.
Ma non avrebbe mai lasciato
che la trasportasse via.
Così si ritrova a guadare il
fiume gattoni, sporcandosi dalla testa ai piedi di fango, e quando, finalmente,
riesce a issarsi sulla terra ferma, si adagia con la schiena rivolta verso le
morbide foglie, con gli occhi chiusi.
Normalmente avrebbe avuto il
fiatone, avrebbe sentito il cuore battere all’impazzata. In realtà, quando
quasi per abitudine mette una mano sul petto, l’unica cosa che continua a
sentire è lo scroscio imperterrito dell’acqua.
E in quell’istante, ricorda
tutto.
Spalanca gli occhi
all’improvviso, liberando un braccio dalla lunga manica per toccarsi la testa.
Poi scatta in piedi, con alcune foglie rimaste impigliate tra i capelli ancora
gocciolanti. Sa che respirare ormai è totalmente inutile, ma continua ostinatamente
a farlo. Ha ancora la mano tra i capelli, e quando trova la corona di fiori se
la strappa via con rabbia, gettandola nel Fiume.
Si lascia cadere in
ginocchio, le mani strette a pugno, lasciando scorrere calde lacrime di rabbia
lungo le guance infangate.
Riesce a vedere, ha ancora
tutti i capelli sulla testa, riesce a camminare, e il suo cuore è silenzioso.
Il suo più grande sogno non
si è avverato. Ha perso la sfida più grande della sua vita. La malattia ha
vinto, e lei è morta.
Morta.
Quella parola continua a
martellarle la testa, come se volesse spaccarla e uscire da lì.
Inerte.
Sua madre e suo padre non ci
saranno più per lei. Né lei potrà mai aiutarli a riappacificarsi dopo una
discussione. Da quel momento in poi sarà solo un triste ricordo da trascinarsi
dietro ogni giorno, ogni ora, ogni istante della loro vita.
Spenta.
Non si lamenterà più a scuola
per le interminabili lezioni con i suoi amici. Non uscirà più con loro, non
riderà più con loro. Perché loro sono ancora vivi.
Loro... i miei amici...
Non ne aveva molti.
Solitamente, quando uscivano insieme il sabato sera, erano soltanto in cinque.
C’era Chiara, la sua prima vera amica, con i capelli neri come la notte sempre
impeccabili, a differenza dei ricci ribelli di Alessandra, sua compagna di
banco dalle medie, la prima a prendersi in giro dicendo che Ale (così la
chiamavano solitamente) in inglese significasse “Birra”, con gli occhi azzurri
come il cielo pieni di lacrime dalle risate; erano di un azzurro diverso da
quelli di Giovanni, che ricordavano più il colore del mare; e poi c’era Lucia,
con un grande sorriso sempre stampato sulla faccia, innamorata più che mai del
suo gatto Jim.
Era stato proprio durante una
di quelle serate insieme che il mal di testa aveva fatto la sua prima comparsa.
Non appena si erano incontrati nel solito punto, la testa aveva cominciato a
dolerle leggermente. Ma nel giro di un paio d’ore la sua emicrania era
peggiorata, e quando ritornò a casa andò subito a letto, senza nemmeno
cambiarsi. Pensò che fosse soltanto troppo stanca. Non dormì per quella notte,
e quando la mattina dopo si alzò dal letto, l’unica cosa che erano cambiati
erano gli occhi, gonfi e adornati da un bel paio di occhiaie scure. Aveva fatto
colazione velocemente, aveva preso una compressa ed era tornata a letto. Dopo
un’ora il mal di testa sembrava essere passato leggermente, ma ritornò ben
presto, ancor più forte di prima. Sua madre sapeva cosa stava passando, circa
ogni mese aveva un attacco simile anche lei. “Deve essere un problema genetico”,
si era detta. Il giorno dopo fu uguale al precedente, e decise quindi di
portare la figlia al pronto soccorso. Il medico la visitò rapidamente, e le
prescrisse subito un farmaco. Questa volta sembrò funzionare, e dopo quasi una
settimana ritornò a scuola, come sempre seduta tra Alessandra e Giovanni, con
Lucia davanti. Sarebbe stato ancora più bello se anche Chiara fosse stata con
lei, ma andava in un’altra scuola. Anche se, come al solito, le lezioni erano
noiose e avevano un leggero effetto soporifero (specie dopo aver passato
qualche notte insonne), era contenta di essere di nuovo tra loro. Passare
troppi giorni a casa a lungo andare diventa abbastanza noioso, specie se con un
forte mal di testa, visto che non puoi nemmeno leggere o usare il computer.
Fu dal mese dopo che tutto
cambiò all’improvviso.
Era ferma accanto al lampione
della fermata, come tutte le mattine, con lo zaino a terra accanto a lei,
aspettando che arrivasse il pullman che portava Giovanni, così da poter andare
a scuola insieme. All’improvviso un terribile dolore la colpì, come se qualcuno
le avesse infilato mille aghi nella testa. Si portò le mani fra i capelli,
spaventata, e non appena il pullman svoltò l’angolo, il mondo divenne ombra.
Quando rinvenne, si accorse
di essere stesa lungo un fianco, con la testa leggermente posta all’indietro.
Aprì gli occhi lentamente, e vide Giovanni chino verso di lei, con il cellulare
in mano.
«Ehy, tutto okay?»
Lei annuì. Quando cercò di
rialzarsi, lui la bloccò.
«Rimani sdraiata. L’ambulanza
arriverà fra un po’»
Dietro di lui vide una
schiera di ragazzi incuriositi. A quanto pare, solo il suo amico l’aveva
aiutata.
«Che è successo?» Riuscii finalmente
a dire.
«Un attacco epilettico»
Spalancò gli occhi, sorpresa.
Un attacco epilettico? Perché? Cosa stava succedendo?
Riprovò di nuovo ad alzarsi,
e di nuovo Giovanni la bloccò.
«Non ci pensare nemmeno! Sta
ferma.»
Non appena finì di parlare, una
sirena annunciò l’arrivo dell’ambulanza. Le fecero una piccola visita di
controllo, tempestando l’amico di domande.
«Ha sbattuto la testa nel
cadere?»
«Non lo so, quando sono
arrivato era già a terra. Mi ci è voluto un po’ per farmi spazio tra la folla,
volevo sapere cosa fosse successo. Quando ho visto che era la mia amica, l’ho
subito aiutata»
«Intendi dire che tutta
questa gente non ha mosso un dito?»
Lui annuì, tutto rosso in
faccia per le troppe attenzioni ricevute. I volontari presero la ragazza e la
trasportarono in una barella. Mormorò un “ciao” all’amico prima che la
portassero via.
Fu nel pomeriggio che lo
rivide nuovamente. Insieme a lui c’erano anche Alessandra, Chiara e Lucia. Non
appena fecero capolino nella grigia stanza dell’ospedale, la ragazza non poté
fare a meno di sorridere. Buffo come la loro semplice presenza potesse renderla
felice, nonostante quello che era successo. I suoi genitori decisero di andare
al bar a prendere un caffé, lasciando gli amici soli, liberi di parlare.
La prima ad entrare fu Lucia,
che corse subito ad abbracciarla, come sempre.
«Ci hai fatto preoccupare,
sai?»
«E
io? Che l’ho vista a terra?» le disse Giovanni di rimando.
Alessandra e Chiara furono le ultime ad entrare.
Chiara si sedette poco lontana dal letto, mentre Alessandra le si avvicinò,
dandole una piccola pacca sul braccio.
«[1]Macchina
gialla!» esordì «Tanto domani non devi andare a scuola, no?»
A quelle parole, la ragazza si rabbuiò «Chissà se ci
tornerò più a scuola, piuttosto» disse.
Tutti si ammutolirono, e l’atmosfera tornò ad essere
quella tetra di prima.
«Cos’è successo?» era stata Chiara a parlare questa
volta.
«Ricordate il periodo in cui avevo quel terribile mal
di testa?»
Tutti annuirono.
«Era il primo sintomo di un glioblastoma»
Se prima l’atmosfera era diventata tetra, adesso lo
era ancora di più. Solo Chiara, che non aveva ancora fatto quell’argomento in biologia,
chiese «Ovvero?»
«Un tumore al cervello»
Ora anche Chiara si era ammutolita, capendo quanto
fosse grave la situazione.
«Non ho voglia di restare in questo letto cinque minuti di più» disse la ragazza «Mi aiutate a mettermi sulla sedia?»
«Non ho voglia di restare in questo letto cinque minuti di più» disse la ragazza «Mi aiutate a mettermi sulla sedia?»
Non capirono subito di cosa stesse parlando. Ma quando
notarono che alle loro spalle c’era una sedia a rotelle, capirono tutto. A
quanto pare, le sue gambe avevano smesso di funzionare.
Passarono il pomeriggio a gironzolare per i corridoi,
raccontandosi piccoli fatti successi durante la mattinata, come se non fosse
mai successo niente, come se la ragazza che trasportavano non fosse la loro
amica. Ogni tanto qualche infermiere li sgridava per il troppo baccano
provocato dalle loro risate; ma quando se ne andavano, scoppiavano a ridere, e
continuavano come se niente fosse. Buffo come una giornata da incubo si fosse
trasformata in una giornata meravigliosa.
Quando poi dovettero andare via, aiutarono di nuovo la
loro amica a risalire sul letto. I suoi genitori si chiedevano come mai fossero
così allegri, ma non fecero domande.
«Verremo a trovarti tutti i giorni. Faremo i turni,
promesso!» le disse Lucia.
Mantennero la promessa. Vederli le faceva sempre
piacere, e proprio come la prima volta, ogni volta che uno di loro entrava, le
pareti grigie sembravano colorarsi di colpo.
Ma anche se era felice, il tumore non regrediva.
La chemioterapia la rendeva sempre più debole, e non
voleva nessuno specchio nei paraggi, per non vedere la quantità di capelli che
le cadevano a ciocche.
Finalmente, dopo un mese, la fecero tornare a casa.
Non appena entrò in camera, fu sorpresa di vedere tutti i suoi amici lì.
«Oggi è un giorno speciale, giusto?» esordì Chiara «E
allora dobbiamo festeggiare!»
Le avevano organizzato una piccola festa a sorpresa.
Debole e stanca, senza più nemmeno un capello in
testa, si sentiva la ragazza più felice del mondo. Due settimane dopo sarebbe
dovuta tornare per un altro ciclo di chemioterapia, ma per il momento non le
importava. Voleva soltanto passare una serata fantastica con i suoi fantastici
amici, proprio come quando uscivano insieme il sabato sera. Le avevano fatto
anche un regalo: una parrucca rossa.
«Ma io sono bionda!» aveva detto non appena l’aveva
aperta.
«Da oggi sei rossa. E non devi nemmeno pagare la
tinta!» le disse Alessandra.
Quando andò a letto, era più stanca che mai. Ma, cosa
più importante, era felice.
Si risvegliò all’improvviso, circondata dal buio.
Afferrò la sveglia analogica dal comodino, ma sembrava rotta, visto che non si
illuminava. Odiava non sapere l’orario. All’improvviso, però, sentì la porta
aprirsi, e sua madre sussurrarle «Tesoro, svegliati! Devi almeno pranzare!»
«Se è mezzogiorno, perché è tutto buio?»
«Ma che stai dicendo? La tapparella è ape...» si
bloccò all’improvviso. Poi la sentì correre in cucina. Dopo un po’, stava
parlando al telefono, allarmata.
Aveva capito subito chi stava chiamando. E aveva
capito subito anche cosa fosse successo.
Oltre all’uso delle gambe, aveva perso anche la vista.
La riportarono subito in ospedale. Qualche cellula
tumorale aveva viaggiato per il cervello, accumulandosi anche nel lobo
occipitale.
Un’altra operazione, un altro ciclo di chemioterapia.
Sempre più stanca, e sempre più debole. Ormai passava più tempo dormendo che da
sveglia. Ma non voleva mollare. Vivere era l’unica cosa che le importava al
momento. E i suoi genitori, così come i suoi amici, erano sempre lì, accanto a lei,
ad aiutarla a mangiare, a vestirsi, a lavarsi. E ogni giorno le leggevano
qualche capitolo dei suoi libri preferiti, visto che lei non poteva più farlo.
Promise a se stessa che quando tutto sarebbe finito, avrebbe imparato
l’alfabeto Braille. Perché lei era quasi certa che sarebbe vissuta, nonostante
i medici lo negassero. Lo ripeteva in continuazione, così che nessuno lo
dimenticasse, lei stessa per prima. Era questo il suo più grande sogno, il suo
unico desiderio.
«Non sempre i sogni si realizzano» disse un giorno
Lucia.
«Il mio sì»
«E se non si avvera?»
«Si avvererà»
Quel giorno non c’era solo Lucia, ma anche tutti gli
altri. Ormai non c’era più allegria nei loro animi, sapevano cosa sarebbe
potuto succedere da un momento all’altro. Un’infermiera entrò ricordandogli che
l’orario delle visite era finito da tempo.
«Prima che me ne vada, voglio che tu mi faccia una
promessa» disse Chiara
«Spara»
«Quando i sogni non si realizzano, non bisogna
scoraggiarsi, bisogna affrontare la situazione. Mio nonno me lo diceva sempre.
Non ho idea se ci sia qualcosa dopo questa vita o meno, me se c’è, ricordati di
noi, ricorda che non ti vorremmo mai triste. Non pensare che tu sia morta,
pensa che tu sia rinata. Devi promettermi che lo farai.»
«Non solo a lei, promettilo anche a me» aggiunse
Giovanni
«E a me» dissero uno dopo l’altro anche Lucia e
Alessandra.
«Okay, okay, lo prometto! A tutti voi! Ora andate,
prima che l’infermiera vi sgridi di nuovo»
Dopo che se ne erano andati, si addormentò.
E non si risvegliò più.
O almeno, non in quel mondo.
Non pensare che
tu sia morta, pensa che tu sia rinata.
Rinata...
Di colpo, la ragazza smette di piangere. Ora sono
queste le parole che rimbombano nella sua testa.
Ho fatto una
promessa ai miei amici... devo rinascere!
Si alza in piedi, e si accorge che la tunica è di
nuovo asciutta e pulita, così come i capelli. Si gira verso il Fiume che l’ha
trasportata fino a lì, ascoltando per un attimo lo scoscio dell’acqua, mentre
alcune foglie le accarezzano la testa prima di cadere. Ora sa quello che deve
fare.
Aiutandosi con i denti, la ragazza strappa le maniche,
fino a quando non le arrivano al gomito. Poi si china, strappandosi anche la
veste fino alle ginocchia.
Ora sì che sono
libera... ora sì che posso rinascere!
E comincia a correre, seguendo il corso del fiume.
Rinascere!
Raggiunge una velocità che non aveva mai raggiunto
prima, ma non è stanca. Il suo cuore ha smesso ormai di battere, e non ha più
bisogno di respirare.
Rinascere!
Altre foglie continuano a cadere, impigliandosi ai suoi
capelli. Ma a lei non importa, continua imperturbabile a correre.
Rinascere!
Scoppia a ridere per la gioia, e mentre ride continua
a correre, a correre e a correre!
Rinascere!
Ora vede dove finisce il Fiume, vede come sfocia in
quel piccolo lago, prima di compiere il grande salto e cadere nell’abisso.
Io...
L’acqua in quel lago è abbastanza alta da potersi
tuffare. E lei si tuffa, lasciandosi trasportare dalla forte corrente.
...devo....
Riemerge dall’acqua, abbastanza da poter vedere quanto
vicina fosse alla cascata.
... RINASCERE!
Insieme a tutta quell’acqua, anche lei viene buttata
giù, nel vuoto, urlando dalla forte gioia.
Dove sia finita, è impossibile dirlo, in quella terra
così lontana da noi.
[1] È un piccolo gioco. Se
vedi passare una macchina gialla, il giorno dopo verrai interrogato. Puoi però
passare la “maledizione” a qualcun altro, semplicemente toccandolo dicendo
«Macchina gialla», appunto.
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