giovedì 20 settembre 2012

Confessioni

Non ho idea di quanto tempo sia passato da quando ho cominciato a osservare il cursore. Forse un minuto, forse due, forse tre. A me sembra un'eternità.
Un'eternità passata a fissare una stupida tacchetta lampeggiante, su uno sfondo totalmente bianco.
Ecco, è proprio così che è la mia mente in questi giorni.
Bianca.
Vuota.
Spenta.

Cerco sul dizionario la parola spento, alla ricerca di un altro termine che possa descrivermi; ma su quella stupida applicazione scaricata dal Play Store non ho trovato niente.

Anche lei è vuota.

Non ho voglia di prendere il mio Garzanti. In realtà non ho nemmeno voglia di scrivere.

-Smettila di mentire a te stessa!
Oh, no, non di nuovo quella stupida voce!
-Smettila con questa storia!
Ti prego, ti prego, stai zitta!
-Sai perfettamente qual è la verità! 
Ho detto STAI ZITTA!

La voce ha smesso di parlare. Ma non per il mio urlo interiore, no, quella crudele voce non smette mai di parlare fino a quando non raggiunge il suo scopo. E il suo scopo è stato raggiunto: la verità è tornata nella mia mente.
Sconfortata, mi sdraio in orizzontale sulla coperta a strisce del mio amato letto. Lascio che le infradito nere scivolino via dai miei piedi, mentre i lunghi capelli biondi strisciano sul marmo, dall'altra parte del letto. Fa niente, tanto tra un po' dovrò andare a lavarmeli. Aspetto che il sangue cominci ad andare nella testa. Sento le guance arrossarsi e le tempie scoppiare, ma continuo a rimanere sdraiata a testa in giù.
Da questa strana posizione, ciò che vedo è ciò che più amo: i miei libri. Ripercorro con loro la mia storia. Osservo le colorate copertine de Il Club delle Baby Sitter, e degli altri libri de Il battello a vapore che mi hanno accompagnata durante tutti gli anni delle elementari. Già a sette anni, avevo capito che la lettura sarebbe stata per sempre la mia droga.
Più in alto (o da come li vedo io, più in basso), alcune copertine nere mi strizzano l'occhio. Effettivamente, nero era anche il periodo che stavo passando quando li ho letti. Quando la gente scopre che nella mia libreria  ci sono quasi tutti i libri di Stephenie Meyer, rimane stupefatta. Non è qualcosa di cui mi vergogno: posso capire tutte le parodie che girano su YouTube, o spoilerare a chi guarda solo i film. E poi, lo ripeto, era un periodo proprio nero quello, nero quanto potrebbe esserlo non accettarsi per quello che si è.
Gli ultimi tre ripiani sono un caos totale, o almeno per me: il poco spazio disponibile mi costringe a non poterli disporre come vorrei. Ma amo quei tre scaffali, quel tripudio di colori che formano, quel miscuglio di odori (perché, si sa, ogni libro ha il suo profumo) che riesci a sentire se ti avvicini un po' di più. Chiudo gli occhi, lasciando che tutte le emozioni che mi hanno regalato mi avvolgano. E mi chiedo cos'altro mi regaleranno quella trentina di libri che ancora non ho letto, accumulati durante le feste (e gli sconti) degli ultimi  anni.
Sulla cima (oppure dovrei dire sul fondo?) della mia libreria, c'è un unico oggetto: una coppa. Grande quanto il mio avambraccio, dorata e blu, ha un'incisione sul piedistallo, in corsivo:
A Sara Ventruti

Il mio nome. Su una coppa. Io sono stata capace di vincere qualcosa. Io sono riuscita a trovare qualcosa che so fare davvero: scrivere.

-Un lavoro mediocre, Ventruti. 
È questo che mi dicono a scuola, da sempre. È già tanto se riesco a prendere uno stupidissimo 7. Anche se m'impegno, anche se ce la metto tutta, i miei voti rimangono invariati. Ma da un po' ho imparato a fregarmene.
Che me ne frega di questa stupidissima scuola, di questo stupidissimo liceo! Io riesco a scrivere, ficcatelo in quel cervello! Che me ne faccio di un 10? Tu dici che dovrei essere felice, ma per me rimarrà sempre e soltanto uno scarabocchio.
E uno scarabocchio non riuscirà a farmi provare quello che provo mentre scrivo.

-Sei un'imbranata, Sara!
Questo me lo dicono un po' tutti. Non c'è niente che riesca a rimanere tra le mie mani per più di un secondo, da una palla, a un bicchiere (rigorosamente di vetro). Non riesco nemmeno a camminare: inciampo in continuazione. Le mie cadute sono talmente assurde da passare quasi per leggende.
Ok, lo ammetto, la prima a ridere quando cado sono io stessa. Del resto, non m'importa se non riesco a camminare per le vie del mio paese: scrivere mi fa camminare per le vie della mia anima.


Ma ora, di colpo, non ho più voglia.

-Lo hai fatto di nuovo. Hai di nuovo mentito. 
Stupida vocetta inutile, quando deciderai di stare zitta?
-Quando TU ti deciderai a prendere in mano quel libro.

È da un po' che lo sto fissando, sempre a testa in giù. Ormai la testa mi sta scoppiando, e comincio ad avere qualche difficoltà a respirare. Mi rialzo, ignorando le vertigini, e allungo una mano. Il gabbiano Jonathan Livingston sembra sorridermi quando lo afferro e lo tiro fuori.
Apro una pagina a caso, e di colpo una nuova vocina riecheggia nella mia testa.

-La gente non vola per due motivi: o non ne ha la capacità, o ne ha paura.

Me la ricordo quella voce. È così calda, così gentile. Ogni volta che la sento, è come una tenera carezza che mi sfiora il viso.

-Il tuo è il secondo caso. Perché hai paura di volare, Sara? È così bello farlo...

Dopo aver detto questa frase, mi aveva dato un piccolo bacio su una guancia. Come se quel bacio fosse il sigillo con cui aveva chiuso una pergamena, così che io potessi leggerla quando sarebbe arrivato il momento giusto.
Ora il sigillo è rotto, e la pergamena è qui davanti a me, aperta. Quello che c'è scritto, è la pure e semplice verità.

No, non è vero che non ho voglia di prendere il dizionario, che non ho voglia di scrivere. La verità è che ne ho paura.
Paura di fare ciò che più amo al mondo. Bello schifo.

Ma come sono arrivata a ciò?

La risposta, anche quella, in realtà l'ho sempre saputa.

Ero diventata schiava della perfezione. Essendo la cosa che so fare meglio, ho cercato di raggiungere vette per me impossibili. Passavo un sacco di tempo a fissare quella stupida tacchetta, alla ricerca della frase perfetta. Ma quando la trovavo, era vuota, perché non stavo più scrivendo per l'amore per la scrittura in sé, ma per ottenere la perfezione, quella perfezione che mi è sempre stata negata.

Nah, la perfezione non esiste, me ne rendo conto solo ora. Buffo che ciò che me l'ha fatto capire è stata la scrittura stessa.

Ho provato a scrivere le prime cose che mi sono passate per la testa, una cosa che non avevo mai fatto. Il risultato è quello che avete appena letto.

Ora c'è un'altra voce che mi torna nella testa, un tempo ignorata, anche lei in attesa del momento giusto:
-Ho preferito il tuo post al tuo racconto, se devo essere sincero. Hai la capacità di rendere grandi le cose piccole. Continua a scrivere sul blog. Parla della tua vita quotidiana, invece di cercare trame intricate.

Ora ho copio-incollato il mio elaborato da Word al blog. Mi chiedo cosa ne penserà lei, prof, ora che ho provato a fare ciò che mi ha detto.

Hai visto, Orenya? Hai visto cosa ho fatto? Guarda, sto imparando a volare! Lo so, la strada è ancora lunga, ma è pur sempre meglio di niente. Non ho usato il dizionario. Non l'ho nemmeno riletto. E tra due secondi premerò il pulsante Pubblica. È pazzo, lo so, ma quando mai ho fatto qualcosa di normale?

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